L’incontro tra Antoni Michniewicz e Cicely avvenne proprio al St. Joseph’s Hospice, di cui abbiamo ascoltato la storia, precisamente nell’estate del 1960: erano passati dodici anni dalla morte di David Tasma, il primo “paziente fondatore” del St. Christopher’s, colui che per primo discusse con lei i bisogni reali e complessi dei malati “inguaribili”, delineando un tipo di assistenza e un luogo adatto ad accoglierli come persone vive fino all’ultimo. Il lascito di David effettivamente divenne la pietra angolare del futuro Hospice, che vide la luce nel 1967, 19 anni dopo il loro incontro, ma non solo: la sua eredità spirituale la motivò e la sostenne per tutto il tempo che la separò da questo secondo incontro decisivo.
Come si fa con chi occupa un posto speciale nel cuore, Cicely ne teneva ancora al polso l’orologio… Per quelle misteriose coincidenze che capitano nella vita, anche Antoni era polacco: colonnello delle Forze armate, vedovo da quattro anni, era un cattolico fervente ed aveva un carattere affabile e gentile che lo rendeva una presenza molto cara a tutti in reparto. Egli aveva anche una figlia, Anna, che studiava ancora… e l’attendere i risultati dei suoi esami, come obiettivo da raggiungere, compì verosimilmente uno di quei piccoli miracoli che in Hospice accadono: prolungare la vita oltre ogni previsione. Erano sei mesi che si trovava lì e
fu proprio la frase spontanea di Anna a stravolgere il normale rapporto paziente-curante che c’era tra loro e che si ritiene comunemente “legittimo”: “Mio padre è così innamorato di lei, dottoressa!”
Come un fulmine squarcia le tenebre, Antoni e Cicely si ritrovarono a volto scoperto l’una di fronte all’altro: e lei di colpo prese consapevolezza del fatto che la relazione tra loro la coinvolgeva in modo singolare. Le sue visite si fecero più frequenti, i loro colloqui più profondi e ravvicinati, i loro sguardi messaggeri discreti e silenziosi di un amore vero e proprio… Seppur declinato in una corsia dell’Hospice, in compagnia di 5 altri pazienti e con il personale che andava e veniva; seppur vissuto in sole tre settimane, un tempo che si rivelò non tanto fatto di “durata”, quanto di “profondità”; seppur privo di intimità fisica se non quella di stringersi le mani o di tenerlo tra le braccia per sollevarlo a vedere il Crocifisso, quasi negli ultimi istanti.
“Amore”, sì: usiamo pure questa parola, come fece Cicely stessa, perché è declinabile in mille sfumature e spesso le riduciamo a molte poche… Un amore fatto di fede condivisa, di tenerezza, di prendersi cura reciprocamente l’uno dell’altra, di intimità spirituale profondissima: un amore che, dopo la morte di Antoni, avvenuta il 15 agosto di quell’anno, si rivelò forte e concreto, una presenza costante nella vita di Cicely, ma anche un lutto dolorosissimo da elaborare, non tradizionale, nascosto se non agli occhi delle amiche più care, come Betty West, il cui marito Cicely aveva accompagnato con dedizione ad una morte serena nella sua casa. Non era sola, dunque, perché aveva una comunità affettuosa intorno, ma dovette, come tutti, compiere il suo personale “lavoro del lutto” per poter poi dire in seguito: “David mi diede le idee di base e Antoni l’a tutto vapore”.
Ecco perché Antoni è il secondo “paziente fondatore”: rese Cicely realmente consapevole dell’importanza del sostegno ai familiari e agli amici di chi sta morendo, oltre che dell’intensità di dolore e di energia che un tale accompagnamento, pur potendo essere vivificato da meraviglia e gratitudine, comporta.
Un tassello alla volta, nell’esperienza concreta, per dare vita a quel capolavoro di scienza e umanità che rivoluzionò, in modo irreversibile, l’assistenza ai morenti: il St. Christopher’s Hospice di Londra. Alla prossima puntata!