“La dimensione esistenziale della sofferenza alla fine della vita”. Il modello del processo integrativo di Carlo Leget e Mai-Britt Guldin

“… E il punto è vivere ogni cosa. Vivere le domande ora.”

Si apre con una splendida ed evocativa poesia di Rilke la tre giorni residenziale in compagnia di Carlo Leget, Professor of Care Ethics all’Università di Utrecht e celebre estensore delle Linee guida olandesi per l’Assistenza spirituale, e di Mai-Britt Guldin, psicologa, ricercatrice alla Aarhus University in Danimarca e fondatrice del “Center for Grief & Existential values”, che si è tenuto a Villa San Leonardo al Palco di Prato a metà di giugno.

Reso più affascinante e coinvolgente dall’empatia e dalla gentilezza di questi due Professionisti, capaci di agganciare il canale affettivo per trasmettere concetti importanti e complessi, il corso si è proposto di esplorare la dimensione esistenziale della sofferenza alla fine della vita, ma non solo: il dolore e la rottura biografica che tutti sperimentiamo nelle tante perdite e lutti che costellano l’esistenza, che si tratti di una separazione, della perdita del lavoro, di un trasferimento o della rottura di un’amicizia. Un corso molto esperienziale, giocato tra momenti di teoria molto poco frontali, ma molto interattivi, come si usa all’estero ed è modus operandi estremamente efficace e fruttuoso, ed esercitazioni pratiche, a coppie o a piccoli gruppi, con condivisione in plenaria finale, libera e partecipatissima.

Ci siamo inizialmente soffermati sulla ricchezza del “Diamond model” (Modello Diamante) che Carlo Leget ha costruito ispirandosi all’antica “Ars moriendi” medioevale e modernizzandola, propostoci concretamente con un impegnativo caso clinico su cui riflettere e confrontarci. Per poter trovare l’opzione più adeguata a quella persona in quel determinato momento, sono emerse tutte le dimensioni del dolore, quelle già esplicitate da Cicely Saunders con il concetto di “dolore totale”, che sono interconnesse tra loro e necessitano di ampliare lo “spazio interiore”, metafora fondante di questo modello di assistenza così come la “polifonia delle voci”, a sottolineare l’importanza del sapersi relazionare e del sapere ascoltare e prestare attenzione per favorire quella connessione tanto importante nella storia tutta da scrivere che coinvolge curato-curante.

Il giorno successivo, Mai-Britt ci ha condotti per mano con delicatezza nell’esplorare “la perdita come finestra sulla consapevolezza esistenziale”, sottolineando le parole-chiave della spiritualità: “meaning & connectivness”, ovvero “significato e connessione”. Rimarcando che il “Diamond Model” con le sue cinque tensioni è universale, esplicita come il lutto sia una sensazione basilare, una reazione alla perdita e un’esperienza esistenziale: un’esperienza emotiva molto complessa e anche il più grande limite che sperimentiamo, con funzione adattiva in vista della sopravvivenza.

Le reazioni al lutto investono tutte le dimensioni della persona: questo è dimostrato scientificamente esaminando i livelli degli ormoni dello stress e di quelli della felicità, a rimarcare una volta di più la profonda connessione mente-corpo che ci contraddistingue. Ci spiega che il cervello è molto lento nell’elaborazione del lutto, creando talvolta illusioni e sensazioni di presenza, oltre a rivivere ogni volta tutti quelli precedentemente vissuti: questo a significare che, nonostante tutto l’aiuto che si possa dare, il lutto non andrà mai via. Si parla di “pensiero magico” come modo di elaborarlo e dell’importanza dei ricordi e dei rituali concreti.

Ripercorrendo i vari modelli per approcciarsi al lutto, si sofferma in particolare sul “Processo duale” di Stroebe&Schutt del 1999, che si basa sulle oscillazioni avanti e indietro, tra perdita e ripresa, che costellano l’esperienza quotidiana. Un processo di regolazione emotiva che implica imparare un nuovo modo di vivere che comporta, appunto, oscillazioni tra le due sponde.

Nel terzo e ultimo giorno, abbiamo nuovamente riflettuto sulla “perdita come una finestra sulla consapevolezza esistenziale” e conosciuto il loro modello, in fase di validazione scientifica: l’IPM (Integrated Process Model) o “Modello del processo integrativo”, che mira a costruire un ponte tra tutti i modelli precedenti e quest’ultimo. Qui il link all’articolo open access che lo presenta: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/07481187.2023.2272960

Si tratta, in sostanza, di soffermarsi sulle “preoccupazioni ultime del fine vita: morte, libertà, isolamento e significato”, che ci riportano al fatto che, quando soffriamo, ci vuole il coraggio di continuare a vivere con il lasciare domande in sospeso, cui magari un giorno potremo trovare risposta (Rilke).

Si tratta di accogliere le tensioni esistenziali tra due polarità e trovare un nuovo equilibrio: tra subire e prendersi responsabilità; tra abbracciare la vita e accettare la morte; tra consapevolezza riflessiva e consapevolezza corporea; tra solitudine e connessione, e, per la dimensione spirituale, tra senso e insensatezza.

Il segreto è personalizzare il percorso dell’elaborazione del lutto, cioè cucire un percorso sartoriale, secondo i termini tanto cari alla Medicina Narrativa, sulla dimensione (fisica, emotiva, sociale, spirituale) più attivata di ciascuno.

La metafora di Mai-Britt della “cattedrale interiore” è quanto mai esemplare nell’integrare tutti gli elementi emersi: spazio interiore, gestione delle tensioni, regolazione delle emozioni e allineamento mente-corpo.

Concludiamo con il considerare le differenze tra “Modello Diamante” e “Modello del processo integrativo” e con il salutarci con un abbraccio, fisico e virtuale, di gratitudine e comunione. Ad maiora!

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