Cure Palliative: excursus storico
La storia delle Cure Palliative, seppur recenti come disciplina scientificamente riconosciuta e validata, poggia su radici salde, lunghe e profonde che hanno a che fare con l’essenza stessa dell’uomo: una storia millenaria e archetipica, che merita di essere tratteggiata e valorizzata per non dimenticare che la “cura” e il “prendersi cura” da sempre sono insiti in ogni aspetto dell’essere umano e lo definiscono in quanto tale.
Il mito di Cura
Il mitografo romano Igino, nelle sue Favole (II sec. d.C.), narra in modo davvero affascinante il mito di Cura: un giorno, nell’attraversare un fiume, l’attenzione della dea Cura venne attratta dal fango argilloso e, giocherellando, si mise a modellarlo traendone la figura di un uomo. In quel momento sopraggiunse Giove, a cui domandò di infondere spirito vitale nella scultura da lei plasmata: egli acconsentì volentieri, ma quando Cura chiese di poter imporre il proprio nome alla creatura, glielo negò, perché il nome doveva provenire da lui, che le aveva donato la vita.
Ne nacque una contesa, che si complicò quando a essa si unì la Terra, essendo sua la materia con cui era stata plasmata la creatura. Per risolvere la diatriba, fu chiamato a pronunciarsi Saturno (il “Chronos” greco, il “tempo”), il cui giudizio stabilì quanto segue: a Giove, che aveva infuso lo spirito sarebbe toccato, alla morte di quell’essere, di rientrare in possesso dell’anima; alla Terra, della cui materia l’essere era composto, sarebbe tornato il corpo dopo la morte; ma a possederlo durante tutta la vita sarebbe stata Cura, la prima a plasmarlo. Il nome, invece, non sarebbe toccato a nessuno dei tre contendenti: l’essere si sarebbe chiamato “uomo”, perché creato dall’”humus”.
Prendersi cura
Fin dai tempi più antichi, quindi, Cura è colei che accompagna l’uomo per tutta la vita e, dal momento che ciò che differenzia il divino dall’umano è la morte, di conseguenza essa diviene la caratteristica umana per eccellenza: il “prendersi cura” diventa parte di ogni vissuto perché ne è l’origine e la causa.
Nell’antichità greco-romana la cura a tutto tondo dell’uomo, fisica e spirituale, era praticata negli asclepieia, gli ospedali greci, più propriamente santuari di guarigione dedicati al dio Asclepio, che comprendevano luoghi dedicati alle cure, ma anche spazi come il foro, il teatro per l’arteterapia e la musicoterapia, la biblioteca, il centro termale e di ginnastica, il tempio per la meditazione e la preghiera: in poche parole, tutto ciò che serve per una cura integrale e che oggi intendiamo, narrativamente parlando, come “linguaggi altri di cura”. Nel mondo latino, poi, si ricordano anche i valetudinaria, ospedali militari previsti in ogni “castrum” militare fin dai tempi di Augusto e improntati alle migliori conoscenze mediche del tempo, che non scindevano corpo, mente e spirito, ma si basavano sull’interezza della persona umana.
Dagli hospitalia …
Storicamente, le prime strutture che si possono considerare antesignane dei moderni hospice risalgono al V secolo d.C.: gli hospitia erano ostelli per viandanti, malati e moribondi, basati sui principi cristiani di assistenza al prossimo sul modello dell’hospitium fondato a Roma nel 381 da Fabiola, matrona romana discepola di San Gerolamo, che si può considerare il primo ospedale cristiano occidentale.
Nel Medioevo, poi, gli hospitalia – i luoghi demandati all’accoglienza di ogni tipo di bisognoso, malato o non malato – sorsero in una prima fase nei monasteri dove, oltre a fornire rimedi medicinali per il corpo, si curavano “in primis” le anime, ritenendo che la salute spirituale fosse la “conditio sine qua non” della salute fisica. Una lunga tradizione, insomma, dove l’uomo veniva considerato un’unità e il “prendersi cura” l’altra faccia della “cura”.
Come dirà alcuni secoli dopo Cicely Saunders, ben sintetizzando il filo di continuità che lega passato e presente, tali strutture dell’antichità dapprima accoglievano i viandanti nelle tappe di un pellegrinaggio terreno, in cui alcuni – più provati – morivano; poi, divennero luogo di accoglienza nell’ultimo pellegrinaggio della vita, in cui quasi tutti morivano.
… agli Hospice
Per molti secoli, dunque, la cura dei moribondi fu strettamente identificata con un’opera prevalentemente assistenziale, una pratica di “pietas” in cui la presenza e l’accudimento erano spesso l’unica, per quanto preziosa, possibilità in un contesto in cui la morte era parte della vita quotidiana.
Solo a metà del 1800, secondo molti studiosi, può delinearsi l’inizio della moderna storia delle Cure Palliative (da pallium, “mantello” accogliente e protettivo da condividere con i bisognosi, secondo l’icona di San Martino), quando, cioè, la suora irlandese Mary Aikenhead fondò a Dublino l’Our Lady’s Hospice, struttura per malati gravi ed economicamente indigenti; ma già prima il termine “hospice” fu introdotto in francese da Madame Garnier, fondatrice dell’opera delle “Dames de Calvaire”, che nel 1843 aprì il primo hospice per morenti a Lione.
A fine ‘800, poi, grazie ad una raccolta fondi dei lettori del Times, sorse a Londra l’Hostel of Good, il primo luogo espressamente dedicato ai malati terminali.
Fu così che, sull’antica tradizione degli hospitia e grazie agli importanti sviluppi della scienza infermieristica, nacquero, sempre a Londra, anche la St Luke’s Home for the Dying Poor a Bayswater nel 1893, ad opera del dottor Howard Barrett e, nel 1905, il St. Joseph’s Hospice ad Hackney, gestito dalle Suore irlandesi della Carità; due strutture fondamentali nella formazione di Dame Cicely Saunders e nell’intuizione e sistematizzazione delle sue innovazioni scientifiche: se non si può ancora parlare di una specifica “medicina palliativa” vera e propria, è innegabilmente in questi ambiti che si definiscono modelli assistenziali più moderni e si comincia ad osservare la possibilità di approcci terapeutici sistematici con oppioidi.
Sul tipo di cura a 360 gradi che lì si praticava, è significativa l’osservazione di un’infermiera del St. Luke nel 1905: “Sebbene tutti i pazienti siano uguali nel senso che stanno morendo, ciascuno di loro ha una sua vita individuale e l’infermiera che li visita ha il dovere di considerare assolutamente sacra la personalità di ciascuno e cercare di individuare ciò che fa di un uomo una persona e che appartiene a lui e a nessun altro. Noi non pensiamo ai nostri ospiti e non ci riferiamo a loro come a ‘casi’. Ci rendiamo conto che ciascuno costituisce un microcosmo umano con le sue caratteristiche, la sua storia, profondamente importante per sé e per una piccola cerchia ristretta. Molto spesso tutto questo viene confidato a qualcuno di noi”.
Intuizione e rivoluzione: dal St. Christopher’s a oggi
L’Hospice Movement, il “Movimento Hospice”, pertanto, ha una storia lunga decenni di lavoro nell’assistenza ai malati terminali, prevalentemente sviluppatasi in ambito anglosassone, britannico e statunitense, e poi incarnato in modo straordinariamente moderno in colei che, di fatto, è universalmente considerata la fondatrice delle Cure Palliative: la dottoressa Cicely Saunders.
Fin dal 1948, quando lavorava come assistente sociale ospedaliera al St. Thomas’ Hospital e riconobbe in David Tasma il primo “paziente fondatore” con cui ideare una nuova modalità assistenziale che si basasse sui bisogni reali dei pazienti, attentamente ascoltati nei loro racconti, assimilati e riconosciuti per tradurli in soluzioni concrete, Cicely ebbe la certezza di avere uno scopo nella vita: David le lasciò 500 sterline dicendole “Sarò una finestra nella tua casa”, gettando così le fondamenta per il suo futuro capolavoro, il St. Christopher’s Hospice, il primo Hospice moderno.
Da quel momento, la sua biografia si intreccia indissolubilmente con la storia delle Cure Palliative e, in seguito, verrà ricordata come il primo medico che dedicò interamente la sua vita all’assistenza dei malati inguaribili.
“Mi ci vollero 19 anni per costruire la casa intorno a quella finestra” – dirà la Saunders in seguito… fino, appunto, al 13 luglio del 1967, data dell’inaugurazione del St. Christopher Hospice, che è considerata a pieno titolo la data di nascita delle Cure Palliative così come le consideriamo oggi: una specialità medica e multidisciplinare, di formazione e di ricerca, pienamente inserita nel Sistema Sanitario, ma anche un approccio umano “globale”, di cura degli aspetti fisici, psicologici, sociali e spirituali.
Sulla figura di Cicely si veda la pagina dedicata
L’Hospice Movement si è progressivamente diffuso dalla Gran Bretagna in tutto il mondo. Nel 1967 in Italia nacque un’unità di Terapia del Dolore all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano con Vittorio Ventafridda; nel Nord America, il Connecticut Hospice attivò un primo servizio dedicato di assistenza domiciliare per i malati terminali e un servizio simile fu aperto a New York in collaborazione con il St. Luke’s Hospital. Quasi nello stesso periodo, Balfour Mount, chirurgo del Royal Hospital di Montreal, fondò il primo Hospice intraospedaliero, il Palliative Care Service (notevole anche storicamente per essere stato il primo ad utilizzare ufficialmente l’espressione “Cure Palliative”). Sul finire degli anni ’80, programmi strutturati del “movimento Hospice” sono attivi in almeno 50 nazioni, dagli Stati Uniti all’Oceania, fino all’Asia.
In Italia
In Italia, la tradizione dell’assistenza ha radici antichissime e trova un fondamento ancora attuale nelle intuizioni tra gli altri di Camillo de’ Lellis, Vincenzo de’ Paoli, Giuseppe Benedetto Cottolengo e nelle innumerevoli “opere di Carità” che aprirono case per i sofferenti in gran parte della Penisola, spesso anticipando di molti decenni il servizio pubblico e non di rado in contrasto con una visione elitaria del diritto di cura. Ci limiteremo, quindi, a ripercorrere alcuni dei passaggi decisivi della nascita e dello sviluppo delle Cure Palliative nella seconda metà del XX secolo, con un percorso spesso poco considerato a livello istituzionale, ma capace di una vera e propria rivoluzione silenziosa, innanzitutto culturale (è del 1981 il primo testo divulgativo che significativamente già parlava nel sottotitolo del “cammino delle cure palliative in Italia”).
Gigi Ghirotti… Vittorio Ventafridda… e gli altri
Negli anni ’70 era “un male incurabile”. Il nemico subdolo che “si portava via” personaggi famosi o persone care. Non mancavano Anestesisti che avevano scelto di occuparsi della nascente Terapia antalgica e Oncologi che guardavano ad una dimensione della cura fatta anche di accompagnamento nelle fasi finali della malattia, ma non risultano tentativi di un approccio coordinato tra “terapia” e “assistenza”: in fondo, la morte e il cancro restavano tabù di cui non era opportuno occuparsi se non quando direttamente toccati come pazienti (quasi sempre all’oscuro anche solo della diagnosi) e come familiari. Poi si manifestò qualcosa di nuovo. Un primo segno di cambiamento: nel 1973, in una trasmissione televisiva seguitissima dal titolo “Orizzonti – L’uomo, la scienza, la tecnica”, la voce auto-narrante di Gigi Ghirotti raccontava la vicenda umana di un grande giornalista, abituato a reportage di guerra, di politica e di cronaca nera. Non un “reality della sofferenza”: Ghirotti, che affrontò e descrisse la malattia in tutte le sue fasi e in tutti i possibili rapporti interpersonali tra “compagni di viaggio”, pensando inizialmente di guarire, era animato da una grande passione civile e sociale del dovere della testimonianza. Morirà nel 1974, dopo aver aperto un varco nella società e nella cultura dell’epoca. Non a caso, ancora oggi, la Fondazione che porta il suo nome è una delle più attive nella promozione dei valori e della cultura delle Cure Palliative.
Ma è ancora una volta “una storia” vissuta e condivisa a determinare la nascita ufficiale delle Cure Palliative in Italia. È la storia della famiglia Floriani, a Milano. Virgilio è un importante imprenditore: quando il fratello muore, dopo lunghe cure e molte sofferenze, è chiara la percezione di aver trovato in Italia elevati livelli di cure oncologiche, di chirurgia, di chemio e radioterapia… Ma una cosa manca rispetto agli altri Paesi (siamo a metà degli anni ’70): una cultura della terapia del dolore e dell’accompagnamento nell’ultima fase della vita; un supporto organico ai pazienti e alle loro famiglie, possibilmente a casa. Fra i pochi medici sensibili a questi temi, Floriani ha incontrato un’anestesista dell’Istituto Tumori di Milano, Vittorio Ventafridda: a lui affida il lascito in memoria del fratello. Nasce così, nel 1977, la Fondazione Floriani. In pochi anni Vittorio Ventafridda diventerà un punto di riferimento non solo in Italia (fu il primo Presidente della Società Italiana di Cure Palliative), ma a livello mondiale. Affascinante il suo racconto della settimana nella sua villa sul Lago di Como, trascorsa con un piccolo gruppo di esperti, da cui nacquero le prime raccomandazioni dell’OMS per il controllo del dolore da cancro (1986). È l’inizio dell’avventura che attraverso esperienze simili, spesso molto più limitate numericamente ed economicamente, ma animate dalla stessa autentica voglia di fare, faranno nascere e crescere il movimento delle Cure Palliative anche in Italia. Quasi sempre, dietro una nuova Fondazione o associazione di Volontariato, c’è una storia personale, un’esperienza da ricordare e una catena di solidarietà che passa di famiglia in famiglia di assistiti. Il setting naturale di queste prime decisive esperienze è quello dell’assistenza domiciliare. Fondamentale, a questo proposito, la disponibilità di alcuni “pionieri” a formare generazioni di giovani Palliativisti, medici, infermieri, psicologi e fisioterapisti in una disciplina che solo dopo alcuni decenni verrà riconosciuta dalle istituzioni.
Dalla “Domus” alla legge 38
Nel 1987 sorge a Brescia, presso la Domus Salutis delle Suore della Carità, il primo Hospice pubblico in Italia: per molti anni resterà anche l’unico. Il lungo cammino delle Cure Palliative in Italia è una straordinaria testimonianza della forza della società civile che anticipa di decenni i tempi della politica e delle strutture burocratizzate.
Purtroppo, saranno eventi mediatici di tutt’altro tipo, come la drammatica fase della cosiddetta “Terapia Di Bella” sul finire degli anni ’90, a costringere la politica a prendere atto della necessità di ufficializzare le Cure Palliative come diritto per tutti i cittadini. Un cammino successivamente tutt’altro che in discesa, ma questa ormai è la storia recente che, passando attraverso le leggi 38/2010 e 219/2017, giunge ai modelli organizzativi dei giorni nostri. Presenti sul territorio e flessibili anche di fronte a sofferenze improvvise e imprevedibili… come una pandemia.
In particolare, merita ricordare che, con il DPCM 12 gennaio 2017 di definizione ed aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (LEA), sono state caratterizzate le Cure Palliative e la Terapia del dolore, con un approccio orientato alla presa in carico e al percorso di cura, distinguendo gli interventi per livelli di complessità ed intensità. A questo proposito, si veda Cure palliative/LEA 2017
Per chi desidera avere un quadro delle normative fino al 2020, cfr. Quadro normativo aggiornato al 2020
Di rilevante importanza, infine, il decreto del 28 settembre 2021 in cui si istituisce la Scuola di specializzazione in Medicina Palliativa pubblicato in GU 301 del 20/12/2021 e seguito, poi, da altro decreto con gli standard richiesti alle SdS. Cfr. Scuola di Specializzazione in Medicina e Cure Palliative
La grande prova e le sfide del futuro
La pandemia SARS-Cov2 del 2020-2022 ha evidenziato la necessità di Cure Palliative integrate in tutti i contesti (il ruolo indispensabile delle Cure Palliative per la presa in carico del “dolore globale” nelle emergenze naturali e nelle crisi umanitarie era già noto, per esempio, in un importante documento OMS del 2018), ma anche la debolezza strutturale del sistema sanitario di fronte ad un evento così traumatico e improvviso, per quanto non imprevedibile.
I valori fondanti delle Cure Palliative sono emersi con forza, nell’esperienza condivisa fra tutti coloro che si sono trovati a lavorare nell’emergenza pandemica.
La rilevanza etica della presenza dei Palliativisti è stata significativa e originale: quell’etica “del quotidiano”, al letto del malato, che nasce dall’incontro “gomito a gomito” con i colleghi di altre specialità e dallo “sguardo di cura” sul malato. Insieme è stato possibile, pur nella tempesta che travolgeva gli ospedali, i servizi e l’intera società, contribuire a scelte basate su principi di “proporzionalità” e “appropriatezza”, senza escludere nessuno a priori in base a età e patologie, ma anche assicurando la “cura sempre”, fino alla fine, evitando eccessi senza significato. E anche il desiderio di portare un contributo alla ricostruzione delle persone e della società, nel tempo di quella “Pandemic fatigue” che dovrà essere considerata un vero e proprio criterio anamnestico di nuova fragilità prevedibile nei prossimi anni.
Nella riorganizzazione dei servizi secondo le indicazioni del PNRR e del DM 77, le Cure Palliative dovranno essere presenti con la radice nei propri valori e con apertura alle nuove sfide del mondo che cambia.